Ci troviamo in un periodo storico ove a fronte di un generale avanzamento del senso di uguaglianza ci sono settori dove ancora si fatica a sopire la pressione di “rigurgiti” di antiquate sensibilità. Troppo spesso a fronte di reati che avvengono tra le mura domestiche si ascoltano commenti che invece di stigmatizzare i comportamenti violenti sembrano quasi interrogarsi sulle colpe delle vittime, considerate ree di aver “reagito”.
Situazioni in cui il fuoco dell’attenzione si sposta sui possibili “errori” delle vittime che arrivano così a sentirsi sole ed isolate, quando invece il messaggio che dovrebbe essere condiviso è che nulla può giustificare episodi di stalking e maltrattamenti in famiglia come quelli che riempiono le pagine di cronaca dei nostri giornali; storie di ordinario terrore dove la vittima viene abitualmente perseguitata, isolata e aggredita in ogni ambito della sua vita e, spesso, si trova nell’impossibilità di porre in essere una adeguata reazione difensiva.
La Corte di Cassazione si è recentemente interrogata proprio sulla posizione di una vittima che aveva in alcune occasioni reagito alla violenza e ha chiarito che ai fini dell’integrazione del reato è irrilevante il fatto che la vittima abbia provato almeno inizialmente ad opporre resistenza ai comportamenti del coniuge che per anni l’aveva sottoposte a continue vessazioni, fisiche e psicologiche.
La difesa tentata dalla vittima deve essere considerata una legittima reazione che non può in alcun modo attenuare la valutazione del comportamento tenuto dal soggetto maltrattante; non può essere ritenuto di per sé elemento tale da far recedere la situazione di vessazione subita dalla vittima ad una semplice situazione di litigiosità reciproca, per la cui integrazione è invece necessaria la prova dell’uguale “peso” delle reciproche condotte, da ritenersi pertanto inidonee a comportare quell’abituale stato di prostrazione e vessazione unilaterale richiesto dall’art. 572 c.p.
Nel caso di specie il processo aveva accertato come il marito avesse «posto la consorte in una situazione di sudditanza psicologica, esercitando nei suoi confronti violenza fisica e psicologica, e in particolare percuotendola in più occasioni, cagionandole lesioni, insultandola e umiliandola, sminuendone il ruolo di madre, sottoponendola a controllo invasivo, monitorandone i movimenti e impedendole di partecipare a incontri di fede e di coltivare amicizie»
La Corte di Cassazione nel porre la parola fine all’iter giudiziario ha chiarito che sono gravi e punibili ai sensi dell’art. 572 c.p. anche quelle condotte violente che sono «intervallate nel tempo» anche se “contrastate, infruttuosamente, dal coniuge».
In conclusione, per ritenere integrato il delitto di maltrattamenti in famiglia quello che rileva è che le abituali condotte persecutorie «abbiano finito per concretizzare una stabile alterazione delle relazioni di coppia, così da comportare una sostanziale compromissione della dignità morale e fisica» della vittima, nonostante i tentativi di reazione della stessa.
Avv. Alessandro Calogiuri
– Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza n. 8312/19; depositata il 25 febbraio 2019