Maltrattamenti in famiglia: asserire “è la sua parola contro la mia” non è difesa sufficiente; le dichiarazioni della persona offesa, ove intrinsecamente attendibili, sono fonte di prova idonea a fondare la colpevolezza.
(Cassazione Penale, Sez. III, sentenza 23 novembre 2020 – 25 gennaio 2021, n. 2911)
Spesso da parte di chi è indagato/imputato di reati particolarmente odiosi commessi nel privato del nucleo familiare si sente proferire la classica frase “è la sua parola contro la mia”, come se questo di per sé fosse sufficiente a raggiungere una assoluzione; non si può nascondere poi la circostanza che spesso è proprio tale elementare asserzione che “incatena” le vittime ad una realtà da cui vorrebbero scappare in quanto convinte di non avere speranza data la assenza di prove che spessissimo è connaturata a situazioni delittuose in cui il soggetto agente controlla e limita ogni ambito della vita della vittima impedendogli di fatto di avere contatti con il mondo esterno. Si tratta infatti di reati che quasi mai hanno testimoni o elementi di prova diretta, anche a causa del legame sentimentale tra le parti della vicenda che spesso porta la vittima a sopportare per lungo tempo, sperando in un miglioramento, e a non denunciare o recarsi al pronto soccorso per paura o addirittura per resistenze nell’agire contro un soggetto che, magari, è proprio il padre dei propri figli.
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